sabato 19 dicembre 2015

Sottili piani malvagi che coinvolgono uccelli

Il piano cigni esplosivi.

Obongo e Obongazio decidono di rivedere tutta la serie di Goldrake, il fortunato cartone animato giapponese che ha accompagnato l’infanzia di tanti bambini nati negli anni 70.
L’invincibile robot spaziale venuto a difendere la terra dagli attacchi degli alieni che la vogliono distruggere.
E se a 7 anni questa trama basta e avanza, a 30 anni suonati ti accorgi di alcune cose, al netto dell’indulgenza già inclusa con l’aver deciso di rivedere un cartone animato per bambini.
Come quando il sovrano dei cattivissimi (Re Vega) chiama a colloquio il suo fidato luogotenente (Gandall) per fare il punto della situazione.
Vega deve avere notato che da 60 puntate a questa parte, tutti i tentativi di conquista si schiantano contro le bordate di Goldrake e la fantasia dei suoi in fatto di piani diabolici lascia un tantino a desiderare.
Ne risente un po’ anche il copione che si ripropone quasi identico: mandano avanti dei piccoli dischi volanti, l’equivalente della fanteria leggera, a fare un po’ di danni e ad impegnare l’amico di Goldrake, un tale Alcor, possessore a sua volta di un disco volante altrettanto sfigato, per sconfiggere il quale sarebbe sufficiente un rutto spaziale.
Dopo le schermaglie i cattivi fanno sul serio e cacciano fuori il mostro robotico di turno, cazzuto abbastanza per pestare Alcor, ma poi puntualmente spazzato via da Goldrake, che vince sempre.
E ci mancherebbe altro.
Insomma: Gandall deve inventarsi qualcosa di spettacolare o il numero di calci in culo robotici è destinato ad aumentare nel tempo.
Re Vega chiama e Gandall risponde creativo.

RV – Gandall!
G – Sire?
RV – Qual è la situazione?
G – Stiamo per mettere in opera il piano “cigni esplosivi” per distruggere l’odiato Goldrake!
RV – In cosa consiste questo piano?

E se a 7 anni magari non cogli la finezza oltre i 30 inizi a capire, ad esempio, perché Goldrake vince sempre.
Gandall non si scompone di fronte alla poca perspicacia del suo sovrano e gli illustra il piano dal nome non proprio criptico.
E poteva il piano cigni esplosivi nascondere una cervellotica metafora per “orsi polari dotati di lance”?
O forse per “gatti col bazooka sulla schiena”?
No; sorpresa sorpresona, trattavasi proprio di cigni imbottiti di esplosivo, da far schiantare qua e là sui nemici.

Obongo e Obongazio finiscono di vedere l’episodio e vanno a dormire con un sorriso un po’ amaro.
La mattina dopo Obongo si sveglia e trova sul tavolo un misterioso messaggio di Obongazio, il quale era già andato a lavorare.
“Prima di uscire di casa, ricordati che in bagno ho attuato il piano finestra aperta!”
Obongo, senza aiuti ulteriori da parte di alcun Gandall, riuscì a capire il piano e a neutralizzarlo.

Un altro diabolico piano.

Anni dopo.
Obongo invia un messaggio a sua moglie Obonga.
“Quando esci dal lavoro non andare subito a prendere la bambina all’asilo. Ci andremo dopo. Prima passa a casa... Ho un piano interessante in mente...”
Completano il messaggio due emoticon di strizzatine d’occhio e un sorrisone.

Obonga esce dal lavoro e telefona ad Obongo.
- Ciao sono io
- Allora stai arrivando?
- Sì sono per strada, fra poco arrivo.
- Bene! (Obongo si frega le mani e assume un’espressione goduriosa)
- Dai però dimmi: in cosa consiste questo piano che hai in mente?

Non si trattava di cigni esplosivi, neanche cardellini dinamitardi o passerotti al plastico.
Ad Obongo, improvvisato Gandall, toccò quindi spiegare alla moglie in cosa consistesse il suo piano. Chissà se magari lo stesso Re Vega al posto di Obonga, forte dell’esperienza con volatili dalle pessime attitudini, avrebbe mai scoperto la connessione con un qualche tipo di uccello dalle poco pacifiche intenzioni.


giovedì 17 settembre 2015

Proverbi

Obongo ascolta il trio che propone musica dal vivo in un cortile all’aperto, mentre sorseggia la sua birra.
Ha deciso di uscire nonostante l’umore non sia dei migliori, ma si è fatto un po’ forza e la serata sembra dargli ragione, rivelandosi piacevole; il repertorio è interessante, con classici che spaziano dal blues al rock, riproposti in chiave acustica, suonati bene e con stile dai tre musicisti.
La compagnia è perfetta e la birra è il tocco finale per scacciare definitivamente le ultime ombre dalla testa.
O meglio: il tocco parziale, perché visto il caldo c’è bisogno poi di un’altra birra.
E magari un’altra ancora.
Tocco dopo tocco, la musica sinuosa avvolge tutto e tutti fino a bussare alle orecchie dell’artistico Obongo risvegliando il cantante che c’è lui.
Obongo in condizioni normali limiterebbe la sua performance canora a spazi isolati per la gioia di un auditorio composto da una sola persona: se stesso.
Ma il perfetto mix sonoro, sociale e alcolico, scioglie qualsiasi dubbio.
La saggezza popolare convince Obongo che il momento è quello giusto: “canta che ti passa” dice il proverbio.
La canzone è un invito a delinquere, un classico da cantare col cuore: “I’m just a gigolo… and everywhere I go… People know the part I’m playing…”
Il controcanto esce da solo e ad ogni verso della strofa Obongo inizia a rispondere con un “gigolo” o un “gigolo, gigolo” come da parte assegnata.
Vedendo gli amici intorno divertiti dalla sua partecipazione, inizia a canticchiare anche la parte principale.
Gli occhi iniziano a chiudersi nella ricerca dell’ispirazione, la mano sul petto per supportare il coinvolgimento emotivo. La canzone è un medley costruito per sfociare con energia nella seconda parte, dove si canta a squarciagola il verso “I ain’t got nobody”, con accento sulla “a” di “ai” (la parola inglese “I”), una nota da cantare forte e da sostenere per un po’.
Obongo sa tutto, prende un bel respiro, prepara mentalmente la durata della “a”; vuole davvero rendere giustizia al momento… and three… and four…

AAAAAAAAAAAAA zzzzzzz splut… cough cough cough
SBLLLUEEEEEEERRRRRGGGGGGHHHHHHHHHH

Invece che primo in classifica con la sua personalissima cover di “Just a gigolo/I ain’t got nobody”, Obongo si ritrova invece piegato in due a scaracchiare sopra un vaso di fiori quasi in apnea.
Approfittando della durata della “a” e prima che potesse rifinire l’opera impostando la “i” un poco collaborativo insetto grosso come un cece ha deciso di mettere fine alla sua pur notevole prestazione atterrandogli in piena laringe.

Obongo si ricompone sulla sedia dopo avere espulso tutto ciò che si poteva espellere dalla gola, nei limiti di quanto dettato dalla situazione sociale.
Recuperato l’utilizzo della bocca, abbozza un sorriso, ripensando tra sé e sé al proverbio traditore.

E a quanto poco ci sia voluto poco a passare da “canta che ti passa” a “zitto e mosca”.


lunedì 7 settembre 2015

Mememenu

Obongo e sua moglie capitano in un paesello situato nei pressi dell’autostrada.
L’ora di cena è passata da un bel po’, la strada da fare è ancora tanta e optano quindi per una piccola deviazione alla ricerca di un posto dove mangiare.
Localizzano una trattoria tipica, sperando che sia una di quelle che tanto onore e lustro portano alla tradizione culinaria italiana.
Entrano.

Un cameriere taciturno li fa accomodare subito e porta loro i menu.
“Certo un tipo di poche parole” commenta Obongo.
“Magari è timido” gli risponde Obonga.
“Comunque sembra gentile. Dai ordiniamo che ho una fame pazzesca” chiosa Obongo.

La scelta è limitata, come si conviene ad una trattoria di paese, segno che i piatti sono tutti fatti con ingredienti locali freschi: “fanno solo quello che sanno fare ma lo fanno bene” pensa Obongo soddisfatto.
I nomi sono tutto un programma: ogni piatto ha una descrizione dettagliatissima che lo rende ancora più sfizioso agli occhi di chi legge.
“Sgnaccabuzzi freschi al burro fuso della Val Tinozza, con Sbriccolini ripassati in olio d’oliva del frantoio locale, mandorle di Casal Buzzetto a listelli, fettine di petto d’oca affumicate e scaglie di Corbiglione stagionato”.
Obongo sta letteralmente sbavando sul menu, ma è indeciso; visto che ci sono diverse parole che non conosce pensa bene di chiedere delucidazioni al cameriere prima di operare una scelta così delicata.

“Mi scusi…”
Il cameriere fa un cenno col capo e si avvicina: “Sì?”
“Cosa sono gli Sgnaccabuzzi? E gli Sbriccolini? Il Corbiglione?”
Il cameriere assume un’espressione vagamente rassegnata.
Prende fiato.
Risponde.
“Gli sgna sgna sgna cca cca bu bu bu bu bu zzi so so so no un ti ti ti po di pa pa pa pa paaa sta lo lo lo ca ca cale fa fa fatta co co co con a a a cqua fa fa fa fa rina e u u u uova.”
35 secondi.
Obongo con gli occhi ancora sgranati, intuisce il pericolo e spera di essersela cavata a buon mercato.
Sta per dire “grazie”, ma a causa della sorpresa ci mette un attimo in più del dovuto.
Il cameriere ha già ripreso fiato.
Riparte.
“So so so no sta ta ta ti in ve in ve inventa ti da da da una si si si gno ra di qua. Da da da da non co co co confondersi co co con gli sgna sgna sgna cca bozzi che so so so no del pa pa pa ese qua qua qua vi vi vi cino ma ma ma so so so sono tu tu tu tutt’un a un’a un’a un’altra co co co sa!”
1 minuto e 20 secondi.

Obongo non ha il coraggio di interromperlo per paura di sembrare maleducato.
E quello, visto che nessuno lo interrompe, giustamente tira dritto.
Seguono preziose delucidazioni sui temi: “la storia dello Sgnaccabuzzo (e non lo Sgnaccabozzo) nella tradizione rurale paesana”, “Sbriccolini: oltre il pomodoro Pachino” e “La versatilità del Corbiglione il formaggio più sottovalutato d’Italia”.
Tutti lentamente declinati al blando ma regolare tempo del suo tartagliare.

Quando improvvisamente la pausa del cameriere diventa lunga a sufficienza, Obongo capisce che ha terminato le spiegazioni.
Nonostante la fame lo stesse lacerando è riuscito a portare a termine l’educato gesto di non interrompere il cameriere balbettante, il quale ne ha approfittato per sfogare in un colpo solo anni ed anni di spiegazioni represse che nessuno aveva mai avuto la pazienza di ascoltare.
Il cameriere sorride ad Obongo, quasi commosso.
Obongo restituisce il sorriso e, forse ancora ipnotizzato dai 20 minuti più lunghi della sua vita risponde.

“Gra gra gra zie”.


sabato 22 agosto 2015

Esemplare di maschio esemplare

A fronte di tante donne che si lamentano di uomini che le trattano sempre peggio, noi di Obongo Forever abbiamo rintracciato una testimonianza in controtendenza, una lettera aperta a tutte le donne del mondo che mostra come da qualche parte là fuori ci siano ancora esemplari di maschi esemplari.

Donne di tutto il mondo, vi scrivo questa lettera aperta perché voglio condividere con voi tutte la mia storia, e soprattutto il suo lieto fine.
Anche io come voi avevo perso la fiducia nel genere maschile.
Troppe storie andate male, troppi i ragazzi insensibili che hanno solo approfittato di me, giocando con i miei sentimenti quando quello che volevano davvero era soltanto il mio corpo.
Nessuno che mi abbia mai fatto sentire speciale come pensavo di meritare; sempre ad inseguire un sogno, sempre a pensare che fossi io che sbagliavo qualcosa.
Poi un giorno è arrivato lui, Obongo, il mio esemplare di maschio esemplare.
Voglio chiamarlo così, perché forse non è perfetto, ma sicuramente fa di tutto per essere perfetto per me.
Si dice che la perfezione non esista, ma l’impegno e la volontà e le mille attenzioni quotidiane sì.
Alcuni esempi della vita di tutti i giorni parlano più di mille parole, care amiche mie.
Non c’è scritto da nessuna parte che dobbiate subire il mutismo di un cavernicolo al quale non potete rivolgere la parola durante la partita in televisione; io con Obongo posso parlare di jazz e ikebana a qualsiasi ora, perché vengo prima dello sport e a lui il calcio non interessa neppure.
E quando andate in giro, l’unica cosa che il vostro uomo dovrebbe guardare siete voi e non tutte le passanti con le poppe grandi e le chiappe sporgenti; Obongo non ha occhi che per me, lui le altre donne non le degna neanche di uno sguardo.
Vogliamo parlare di frequentazioni? Non avete firmato un contratto che vi obblighi ad uscire sempre e comunque con i suoi amici di infanzia dai soprannomi ridicoli: il Grollo che a quarantasette anni vive con la mamma, Frugno che si lava solo nei mesi dispari e Doremi noto per la capacità di intonare motivetti ruttando.
Obongo frequenta solo persone di un certo spessore: è membro del club della poesia, fa volontariato e i suoi tre migliori amici sono una pittrice newage, un ingegnere nucleare e un intellettuale cinese in fuga dal regime.
Donne, se avete letto fino a qua, so che in voi si sta pian piano riaccendendo la speranza.
E allora leggete ancora: il mio Obongo cucina divinamente, stira le camicie ed è ordinatissimo.
Nel suo armadio i vestiti sono riposti in ordine cromatico.
La cosa che mi ha fatto letteralmente cadere ai suoi piedi?
Per non litigare sulla posizione della tazza del WC ha scritto una piccola applicazione per il telefonino e l’ha collegata ad un sistema meccanico che ne comanda l’apertura e la chiusura; così basta schiacciare un pulsante sul cellulare prima di andare in bagno e si trova la tazza nella posizione desiderata.
Geniale il mio Obongo!
Ora però amiche mie vi starete chiedendo se il mio maschio esemplare abbia un difetto; ebbene sì, ce l’ha.
Tenetevi forte.
Ha un debole per le scarpe, proprio come me!
E così quando mi viene voglia di viziarlo, usciamo insieme ed andiamo a comprare un paio di scarpe eleganti, dei mocassini casual o qualcosa di sportivo e trendy al tempo stesso.
Riuscireste a pensare a un difetto migliore di questo?

Potrei stare ore qui a parlare di Obongo, del suo pollice verde o del fatto che gli piace il blu acquamarina e che sa il significato di parole come “bouillabaisse” e “eyeliner”, ma rischierei di allontanarmi dal punto.
Il punto è che la speranza esiste donne di tutto il mondo.
Il vostro esemplare di maschio esemplare è là fuori.
Lo riconoscerete in qualche modo.
Lo riconoscere perché è davvero diverso.
Come io ho riconosciuto il mio.
Tenete gli occhi aperti.

Vi abbraccio tutte,
MARIO


lunedì 3 agosto 2015

Talutagio

Il primo tatuaggio.
Obongo: “Luce”, traduci luce e disegnami l’ideogramma qui sul braccio.
Tatuatore Giapponese: LU-CE. Sclivo luce.
Obongo: Luce, hai capito sì?
TG: Sì, avele capito.

Il secondo tatuaggio.
Obongo: “Aria”, traduci aria e disegnami l’ideogramma, qui sull’altro braccio.
TG: A-LIA. Sclivo alia.
Obongo: Aria, hai capito sì?
TG: Sì, avele capito.

Il terzo tatuaggio.
Obongo girella per la spiaggia tutto contento il giorno dopo avere fatto il suo terzo tatuaggio.
Dopo luce e aria un’altra manciata di ideogrammi gli adorna il petto.
Incontra Obango, altro appassionato in materia, in verità più dedito a tribali e disegnini che a proclami nipponici, e non perde occasione per sollevare la maglietta e mostrargli il nuovo inchiostro.
“Figo, cosa c’è scritto?”
“El toro loco, il mio soprannome”
“Ma da chi sei andato?”
“Dal solito.”
“E ti sei fidato?”
“Perchè non avrei dovuto?”
“Beh, bravo è bravo, ma già non è che parli benissimo l’Italiano e tu gli vai a chiedere una frase in Spagnolo?”
“Ma va, è il suo lavoro. E poi ha capito benissimo.”
“E come fai a sapere che ha capito?”
“Gli ho chiesto: El toro loco, hai capito, sì?”
“E lui?”
“Ha detto: Sì, avele capito”
“Sarà... Resto della mia idea: a me piacciono i disegni”
“Ma va! Io ho bisogno di esprimermi. La mia pelle deve parlare.”
“E perchè non ci hai scritto “El toro loco” invece degli ideogrammi?”
“Perchè mi piacciono i disegni”

Il terzo tatuaggio; reprise.
Lasciato Obango, Obongo riprende il suo giro, quando da lontanto scorge Obengo in compagnia di una ragazza che non aveva mai visto prima.
Si avvicina.
“Ciao Obengo”
“Ciao Obongo. Ti presento Obohna Ghinawa, una mia amica giapponese qui in vacanza”
“Piacere!”
“PIACELE, IO OBOHNA GHINAWA! COME STA TU?”
“Bene grazie”
“Non parla molto bene l’Italiano, ma sa molte parole, attento a quello che dici, vecchio mandrillo!”
“MAN-DLI-LO!”
Tutti ridacchiano divertiti, mentre Obohna punta il dito verso il braccio scoperto di Obongo con gli occhi sgranati.
“LU-CE!”
“Ah, ah, brava! Questo è il mio tatuaggio della luce... l’ho fatto in un periodo molto buio della mia vita, in cui cercavo la luce...”
“LU-CE, BELLO TALUTAGIO!”
“Sì, tatuaggio. Mi piacciono i tatuaggi... è un modo per...”
Obohna sempre più rapita, punta il dito sull’altro braccio: “A-LIA!”
“Wow, ma sei bravissima. Aria: l’ho fatto in un periodo in cui sentivo che l’aria è il mio elemento preferito. Mi identifico nell’aria. La mia pelle nell’aria...”
“A-LIA! TU HAI ALTLO TALUTAGIO?”
“Sì, ne ho uno nuovo...”
“IO VEDO TALUTAGIO?”
Obongo solleva la maglietta con un sorriso da playboy: l’accoppiata pettorale scolpito e soprannome taurino sono da sempre la sua migliore arma di seduzione.
“Vedi, questo è il mio soprannome... tutti mi chiamano...”
“MUCCA MASCHIO SCHELZO?”



domenica 26 luglio 2015

Vespiegazione

Un mattina come tante altre, Obongo ed Obonga si trovano in cucina.
All’improvviso, dalla finestra aperta entra una vespa.
Obongo fa un cenno alla moglie e dà istruzioni per evitare che l’insetto voli in giro per la casa: “Esci e chiudi la porta, a questa ci penso io”.
Obonga esce tirandosi dietro la porta.
Senza troppe difficolta, prima che Obongo possa iniziare qualsiasi operazione, la vespa esce da dove era entrata, semplificando le cose.
Obongo richiama Obonga, che torna in cucina.
Al suo rientro però, Obonga compie una singolare manovra che lascia Obongo un po’ basito.
Si dirige verso la finestra con la mano aperta davanti al corpo, sventolandola come per scacciare l’insetto.
Scaccia e cammina rapidamente, fino a raggiungere la finestra per poi chiuderla.
“Ecco, così non torna”.

Per i più curiosi, Obonga si era svegliata da poco ed il gesto è stato partorito in quella delicata fase del risveglio fra l’alzarsi dal letto e il primo caffè della giornata, in cui le funzioni cerebrali della moglie-zombie non sono ancora state ripristinate.
Obongo da bravo marito ha pensato di ricamarci su una storiella.

La domanda è dunque la seguente: cosa ha detto Obonga alla vespa sventagliando il palmo della mano, per farla allontanare dopo che si era già allontanata?
Anzitutto è apprezzabile lo sforzo di non avere parlato alla vespa; è ragionevole pensare che, sì, la vespa sia nata e cresciuta in Italia, ma che difficilmente parli l’Italiano. Il linguaggio dei gesti, invece, è universale.
Anche l’avere usato un gesto non scurrile, benché molto diretto come “sciò, sciò, pussa via” è una buona scelta: qualcosa di più volgare tipo il dito medio sarebbe stato politicamente scorretto e avrebbe suscitato un vespaio di polemiche nelle già complesse relazioni fra uomini e insetti.
Ma da dove Obonga ha tratto la sicurezza che l’animaletto non sarebbe più tornato?
Quale orribile messaggio post-datato era contenuto nel palmo della sua mano basculante?
Forse la ratio dello sventolamento rispetto alla velocità di avanzamento ha prodotto delle onde di frequenza opportuna, che quando captate dalle antenne della vespa le hanno presentato una minaccia convincente?
Tesi, questa della telecomunicazione, che è peraltro l’unica sostenibile: la vespa infatti si era allontanata già da un bel po’ dalla cucina e svolazzava beata per i cavoli suoi da qualche altra parte all’aperto, proprio mentre Obonga si produceva nel suo sforzo comunicativo trans-specie.
Forse le due si erano già incontrate? La vespa ha riconosciuto la cucina che le ha riportato alla memoria il trauma del precedente faccia a faccia con la sopravanzante Obonga e perciò è fuggita ad ali levate.
Obonga anche lei giunta in cucina e notato che la minaccia della vespa non era più tale, ha mostrato il “gesto che tutto può” ad uso e consumo di Obongo, perché anche lui sia in grado di scacciare un insetto qualora questo sia già volato via per i fatti suoi.

Qualsiasi sia la spiegazione, pochi minuti dopo, un’altra vespa si palesa indesiderata in camera da letto.
Probabilmente non quella di prima o neanche una parente o un’amica: è ragionevole pensare che la notizia dei pericoli nascosti in quella casa sia ormai di dominio pubblico tra gli imenotteri.
O forse è proprio la vespa di prima che ne ha fatto una questione di pungiglio?

Obongo non perde occasione e utilizza subito quanto imparato, dirigendo però lo sventagliamento della mano in direzione della moglie, mentre dà istruzioni: “Esci e chiudi la porta; con questa ci parlo io”.  


domenica 12 luglio 2015

La lista

Obongo è una persona distratta con una pessima memoria.
Il suo cervello è come uno scolapasta dotato di fori che inesorabilmente si vanno allargando nel tempo.
Una volta ha cercato di spiegare ad un amico la frustrazione di come ci si senta a dimenticarsi nomi, dettagli, cose e persone usando una metafora.
Appena aperta bocca però non si ricordava più cosa fosse una metafora.

Come tutti, Obongo ogni tanto va a fare la spesa.
Il numero di articoli acquistati rispetto a quelli che aveva intenzione di acquistare è una frazione che si va assottigliando sempre più.
Compra la frutta, ma dimentica il pane; compra la pasta e dimentica vino e pelati.
Sempre che non esca di casa per poi rientrare, dimenticandosi del tutto di andare a fare la spesa.

Un giorno voleva essere sicuro di comprare, fra le altre cose, anche una risma di carta nuova; per non scordarsene aveva pensato bene di scrivere una lista su un foglietto, ma non riusciva a ricordarsi dove avesse messo la penna.
La cercò per mezz'ora ed infine la trovò; impugnata saldamente la biro la fissò attentamente, sapendo che c’era una ragione per tutto questo.
Ah già: il foglietto, la lista!
Dove aveva messo il foglietto?
Ci volle un’altra mezz'ora per trovare il foglietto.
Era finito sotto la risma di carta nuova.

Il caso più sfortunato si verificò però il giorno in cui aveva invitato a cena Obonga.
Per impressionarla aveva imbastito un menu da grande chef per il quale era necessario un numero davvero elevato di ingredienti: nessuna distrazione era consentita, pena il fallimento dell’operazione culinaria-amorosa.
Penna: check.
Foglietto: check.
Lista: check.
Rilettura della lista: check.
Terza, quarta, ennesima rilettura della lista: check.
Questa volta non voleva, non doveva sbagliare; l’ultimo dettaglio era trovare un posto dove mettere la lista.
Già; perché la lista serve a ricordarsi le cose, ma poi bisogna ricordarsi anche della lista.
Ricordarsi della lista: check!
La sistemò nel posto più sicuro che gli venne in mente apprestandosi ad uscire, quando Obonga lo richiamò per sapere che vino portare.
Ne approfittò per flirtare ancora un po’ al telefono e, già pregustandosi la cenetta romantica, si incamminò verso il supermercato con un sorrisone stampato sulla faccia.
Sorrisone che svanì però una volta giunto sul posto.
La lista! La lista! Dove aveva messo la lista?

Obongo non se lo ricordava più.
Eppure era stato così attento nel sistemarla nel posto giusto.
Ed in effetti la lista era ancora lì, proprio dove l’aveva riposta con tanta cura.

Nella tasca dei suoi pantaloni.
A casa.


domenica 5 luglio 2015

Piccoli obonghi crescono

Storie di obonghini ed obonghine e degli occhi innocenti con cui osservano il mondo.

Privacy
Obonghino è un bimbo perspicace ma testardo.
Oggi ha deciso che proprio non vuole andare all’asilo e mamma Obonga sta combattendo una battaglia senza fine per trascinarcelo.
Lo carica sul sedile di dietro della macchina e, durante il percorso, cerca di convincerlo come può.
“All’asilo puoi giocare con i tuoi amichetti e le maestre ti insegnano tante cose utili.”
“Tu vuoi solo liberarti di me.”
“Ma… Come puoi dire una cosa simile?”
“Cosa ti ho fatto di male? Perché vuoi liberarti di me?”
Mamma Obonga un po’ a corto di argomenti e con poca voglia di discutere gioca una carta sporca e fa intervenire niente meno che una divinità in una semplice discussione col figlio di quasi quattro anni.
“Stai attento a quello che dici sai. Non dire queste cose cattive. Ricordati che Gesù ti guarda da lassù.”
Obonghino ammutolisce piccato.
Mamma Obonga, magari non proprio orgogliosa del suo colpo basso, guarda comunque al risultato e si pregusta il silenzio che sembra conseguirne.
Dallo specchietto retrovisore vede Obonghino assumere un’espressione contrariata, a braccia conserte.
Forse è fatta, ora sta zitto fino all’asilo.
Obonghino di colpo allarga le braccia, punta un dito verso l’alto e guarda in su esclamando in tono minaccioso: “Hey, tu lassù, cos’hai da guardare?”

Odore
Obonghina e mamma Obonga rientrano da una passeggiata e aspettano l’ascensore al piano terra.
Si aprono le porte e dalla cabina esce la signora Obonghessa, famosa in tutto il palazzo per il suo utilizzo non certo parco di essenze e profumi.
I più maligni sospettano che invece di aspergere il profumo su di sé, lo beva direttamente, per raggiungere il livello di densità con il quale gli effluvi la circondano.
Mamma Obonga saluta.
La signora Obonghessa ricambia e si sofferma un attimo a fare un complimento alla piccola.
“Ma che grande questa bambina. Quanto sei cresciuta Obonghina! Sempre più bella.”
“Fai ciao alla signora Obonghessa”
“Ciao”
“Ciao, ciao, Obonghina”.
La Obonghessa saluta dal pianerottolo mentre Obonga senior e junior entrano nella cabina, accolte da un vero e proprio muro di profumo.
Mamma Obonga non fa una piega, aspettando che si chiudano le porte e soprattutto di essere fuori dal campo visivo della Obonghessa, mentre Obonghina prorompe a voce alta: “Ma cos’è quest’odore di puzza!”

Strisce
Obonghina sta giocando con il monopattino, sotto lo sguardo vigile di mamma Obonga.
Tra un giro del parco e l’altro, ad un certo punto incrocia una vecchietta un po’ malferma che si accinge ad attraversare la strada.
Le lezioni di educazione civica e stradale ricevute a casa sortiscono l’effetto desiderato ed Obonghina frena e si ferma per lasciar passare l’anziana signora.
Pazientemente attende che attraversi sulle strisce pedonali, salutandola con un sorriso educato.
“Ah, grazie brava bambina”
“Di niente signora, buona giornata”
La signora finisce di transitare mentre mamma Obonga assiste tronfia di orgoglio alla scena; quasi sente una lacrimuccia pronta a solcarle il viso, per l’educazione impeccabile mostrata dalla sua piccola.
Obonghina è pronta a ripartire, ma notando a sua volta la mamma che la osserva, sente la necessità di comunicare un resoconto dell’accaduto a voce altissima, anche a beneficio di coloro che magari si erano persi la scena.
“Mamma! Mamma!”
“Sì amore mio?”
"Mamma hai visto? Ho fatto passare la vecchiaaaaaa!"

Fame
Obonghina e mamma Obonga si recano al panificio.
Mentre quest’ultima è intenta ad ordinare rosette e focaccia, la piccola è ipnotizzata dal pancione di una signora in stato interessante; a giudicare dal volume non deve mancare molto al lieto evento.
Osserva quel misterioso globo mentre mille domande scaturiscono nella sua giovane testolina.
Obonghina, curiosa, incalza la signora.
“Cos’è?”
“È la mia pancia, bambina”
“Grande!”
“Sì è grande, eh, eh, eh”
Obonghina la tocca con l’indice, per saggiare la consistenza.
“Perché è grande?”
“Perché c’è dentro qualcosa, sai?”
“E cosa c’è dentro?”
“Il mio bambino”
La mamma accompagna quest’ultima frase con un sorriso ed occhi sognanti mentre tenta di allungarsi verso Obonghina per condire il tutto con una carezza sulla testa.
Obonghina però si irrigidisce e retrocede, improvvisamente scura in volto.
La sua espressione è terrorizzata e mentre si attacca velocemente alle gonne di mamma Obonga urla piangendo: “Perché te lo sei mangiato?”



domenica 28 giugno 2015

Faccio pulizia

È una bella serata ed Obongo si gode gli ultimi scampoli della domenica primaverile in giardino.
Non può fare a meno di notare il distinto signor De Obonghis che va avanti e indietro tra il caminetto condominiale e la catasta di legna da una mezz’ora buona, continuando a gettare roba nel fuoco.

“Buonasera Signor De Obonghis ha svaligiato una macelleria? Quante bistecche deve arrostire?”
“Buonasera Obongo… No, no, non devo cucinare. Faccio pulizia”
“Pulizia? In che senso?”
“Ormai hanno trasformato questo caminetto in un immondezzaio, guarda qua che disastro!”

Obongo aguzza lo sguardo ma vede solo il consueto ammasso di tronchetti, frasche e ramoscelli secchi: non capisce dove sia il disastro.
Trattandosi di materiale che finisce dentro il fuoco quando il caminetto viene usato per una grigliata la catasta non è molto curata dal punto di vista estetico; nessuno si è mai preoccupato di creare geometrie con la legna, riordinandola secondo criteri new-age o di spruzzarci sopra un goccetto di lavanda profumata per rendere il tutto più gradevole.

“Mi scusi, ma se non ho capito male sta bruciando… La legna?”
“Sì, certo: faccio pulizia. Guarda quanti pezzi, pezzettini… Tutti rotti, tutti lasciati in giro!”
“Anche tutti i legnetti?”
“Soprattutto quelli! Buttati là, alla rinfusa, in disordine: ci penso io, oggi pulisco tutto!”

I legnetti secchi per la cronaca venivano raccolti dai più volenterosi (Obongo incluso) da sotto gli alberi del giardino e messi da parte con cura proprio per la loro qualità di rendere l’accensione del fuoco immediata.
Legnetti che occupavano un posto di prestigio nella pur modesta scala di valore tra i materiali destinati alle fiamme.
Scala che evidentemente sfuggiva alla furia organizzativa di De Obonghis il quale preferiva sterminarli per futili motivi di razzismo vegetale e logistico; erano piccoli brutti e storti e pure piazzati un po’ troppo in là rispetto alla pila allineata dei tronchi ideali, i soli ai quali verrà riservato l’onore di ardere sotto un hamburger e non invano.

Vista l’età di De Obonghis e, percepito lo slancio civile con il quale buttando via chili di ottimo materiale combustibile era convinto di rendere un servizio utile alla comunità, Obongo preferisce allontanarsi in buon ordine.

Una volta tornato a casa, apre la porta della dispensa e nota che c’è un po’ di disordine: buste per fare la spesa ammassate da una parte, confezioni di pasta su ripiani diversi e barattoli di vetro sparsi un po’ ovunque.

Obongo risistema le buste, rimette in ordine la pasta e sceglie un paio di barattoli da buttare; poi un pensiero macabro gli attraversa la mente e si augura, per la sicurezza del condominio intero, che mai e per nessun motivo qualcosa osi trovarsi fuori posto nella dispensa del signor De Obonghis.

Immondizia travestita da legna da ardere

domenica 14 giugno 2015

Una nebbia fittissima

Festa da sballo in un casolare di campagna.
In un epoca antecedente ai navigatori satellitari, Obretta e i suoi due amici Obongo ed Obango vanno alla ricerca del posto seguendo le indicazioni ricevute dagli organizzatori.
Un posto sperduto in pianura, fuori città: un casolare nel bel mezzo del niente.
Obretta sbaglia strada un paio di volte ma alla fine giunge a destinazione.
La serata procede, il divertimento sale insieme al tasso alcolico.
La festa è un successone e quando si fa tardi i tre amici sono fra gli ultimi a lasciarla: tornando alla macchina, si accorgono che su di loro incombe ora una fittissima nebbia.

“Non si vede un cavolo” – Obongo dal posto affianco a quello di Obretta alla guida
“Vai piano, che hai bevuto e non si vede niente!” – Obango, dal sedile di dietro
“Ma che nebbia e nebbia, che bevuto e bevuto; è un banchetto da niente e sono perfettamente in grado di guidare nella nebbia, che poi non è nebbia, è solo un banchetto.” – Obretta ostenta sicurezza, forte della fiducia acquisita con gli ultimi tre bicchierini di tequila.
Un ruttino malcelato, un sorrisino verso il casolare dove ha trovato la donna della sua vita sette o otto volte nel corso della serata e via: mette in moto.
Già dopo pochi minuti è chiaro che la strada su cui si trovano non è la stessa da cui sono venuti: considerazione fatta peraltro a tentoni, poiché la medesima strada ed il panorama che la circonda sono quasi del tutto invisibili.
“Che nebbia, vai piano!”
“Mai vista una roba così… guarda che nebbione!”
“Ahhh, ma la finite voi due? Ci vedo benissimo, ecco, ora a sinistra e siamo sulla statale” – Obretta sempre più sicuro, complici i cinque rum e cola di mezz’ora prima.
A sinistra per la cronaca c’era l’ingresso di una stalla; Obretta evita di sfondare il cancello per un pelo.
Dalla coltre di nebbia, la testa di una mucca osserva la scena impassibile.

Dopo una buona mezz’ora la combriccola ripassa di nuovo di fronte al casolare della festa da cui sta ora uscendo l’ultimo organizzatore rimasto, il quale spiega di nuovo la strada ai tre dispersi e augura loro “buona fortuna” con un’espressione a metà fra il divertito ed il rassegnato.
Dopo un’ora Obretta è costretto a fermarsi per far vomitare gli altri due e per non investire un piccolo branco di conigli che zampettavano da una parte all’altra della carreggiata.
I due obiettivi sono entrambi raggiunti al prezzo di un solo animale colpito di striscio da un potente rigurgito.
Dopo un numero imprecisato di chilometri il cartello “Benvenuti nelle Marche” convince i tre giovani veneti che qualcosa è andato storto. Anche Obretta deve arrendersi all’evidenza e alle rimostranze degli altri due: al successivo cartello stradale scende a leggere le indicazioni, altrimenti indecifrabili dall’abitacolo.

Dopo un’occhiata al numero della statale e alle direzioni per giungere nei paesi limitrofi, Obretta ha tutte le informazioni di cui ha bisogno e torna in macchina.
Dove lo attende una straordinaria sorpresa.
Per qualche strana ragione Obongo e Obango non sono dove li aveva lasciati.
Vicino a lui non c’è più Obongo ma Obango ed Obongo… Boh chissà dov’è finito: se avesse scambiato il posto con Obango dovrebbe trovarsi dietro, ma un rapido esame mostra che non si trova lì.
E le sorprese non sono finite: in macchina non c’è più il volante. E neanche il cambio. Sparito anche il quadro e con lui il parabrezza.
Obretta è di colpo un pilota senza cabina di pilotaggio.
Prova a fare “Brum! Brum!” con la bocca in un tentativo abbastanza infantile di mettere in moto, ma qualcosa proprio non quadra; la conferma arriva dallo sguardo spaurito di Obango che dalla sua nuova postazione lo osserva con gli occhi sgranati.
Basta un attimo perché la voce del redivivo Obongo chiarisca la situazione: “Che cacchio fai?”
Obongo in realtà non si è mai spostato dal sedile davanti da dove pure lui osserva Obretta sbigottito.
Tutti a questo punto sanno qual è il motivo per il quale Obretta ha provato a rimettersi alla guida dell’auto sedendosi nel posto di dietro.

Non si tratta certamente dei quattro gin and tonic di inizio serata, né tantomeno della vodka col succo d’arancia o dei quindiciassette assaggini del torneo di grappa.
“Ragazzi, mi sa che avete ragione voi: questa nebbia è davvero fittissima”.




sabato 6 giugno 2015

Conserveranza

Obonga ha un cuore grande.
Capace di un amore che abbraccia le persone a lei care come un manto avvolgente e rassicurante.
Talmente grande questo cuore, che nel rassicurante abbraccio spesso trovano posto anche cose inanimate, oltre a familiari ed amici.
Per farla breve, Obonga tende ad affezionarsi un po’ a tutto, e a causa di questo nobile sentimento, trova difficile separarsi dalle cose rotte o dismesse quando arriva il momento.

Così piccolo, così solo.
Obongo tollera di buon grado questa propensione della moglie a conservare rottami di ogni tipo a patto che non venga messo in discussione lo spazio vitale riservato agli umani all’interno della casa.
Arriva un giorno in cui, sentendosi minacciato da una famiglia di buste di plastica che per qualche oscura ragione lo osservano da dietro il mobile della camera da letto, Obongo propone di fare un po’ di pulizia.
È il momento di liberarsi di una quantità di cianfrusaglie, come ad esempio vecchi tappi di bottiglia gelosamente conservati poiché ricordavano emozioni uniche e irripetibili quali “la volta che abbiamo guardato un film”, “la volta in cui non trovavamo il cavatappi” o più semplicemente “la volta che abbiamo stappato la birra”.
Obonga si è preparata spiritualmente all'evento; lascia andare i tappi baciandoli sulla fronte uno per uno, negozia il salvataggio di alcune forcine per capelli regalatele dalla cugina di un’amica di un conoscente e si gira dall'altra parte per non dover sopportare lo strazio di vedere Obongo che butta via un copri cuscino con sopra quattro sole macchie indelebili.
Ma la minaccia sono le buste: Obongo ha la netta sensazione che si moltiplichino nottetempo e la loro presenza in camera da letto (In camera da letto? Buste di plastica?) non lascia presagire niente di buono.
Vengono vagliate, una per una.
“Butto?”
“No! Sei pazzo, questa è grande, serve sempre.”
“Questa? Butto?”
“No! Mi serve per metterci le scarpe.”
E così via: “Questa è bella”, “Questa è perfetta per la spesa”, “Questa mi ricorda un’altra busta”.
Lo sfoltimento si sta rivelando complesso, quando da dentro una delle buste sbuca fuori una microscopica macchia di colore rosa che svolazza leggera fino ad adagiarsi sul pavimento.
Trattasi di un sacchettino di plastica, servito in passato a contenere non si sa bene cosa, viste le dimensioni striminzite.
“Senti questo lo butto, non provarci neanche. Non serve a niente”.

Obonga si intristisce. Raccoglie il pezzetto di plastica da terra. 
Lo sorregge come fosse un gattino morto.
Guarda Obongo con una lacrimuccia nell'occhio.
“Ma povero… Guardalo… Così piccolo… Così solo…”

Ursula e Olaf.
Obongo girella in cucina alla ricerca di una cipolla per il sugo e si imbatte in lei: Ursula.
In realtà si tratta proprio di un ortaggio, ma visto il rigoglioso ciuffo verde sbucatole sulla testa e per le ragioni di cui sopra, le regole della casa hanno fatto sì che si meritasse un battesimo.
Risalire al colpevole della presenza di una cipolla umanoide in cucina non richiede una lunga investigazione; Obonga ammette rapidamente le sue responsabilità.
Obongo sa che buttarla via non è un’opzione praticabile; è abbastanza chiaro che in un paio di settimane Ursula inizierà a camminare e a dire “mamma”. Se è sopravvissuto il sacchettino di plastica rosa, dalla capienza inesistente e dimenticato nei recessi di altri sacchetti più grandi, lei non ha niente da temere.

“Ok non la butto, non ci faccio il sugo.”
“Grazie amore, Ursula ti ringrazia.”
“Ma perché non scendi giù e la pianti in giardino?”
“No, non penso che sia una buona idea.”
“Perché no?”
“Ecco vedi, non vorrei che poi… Non so come dirtelo…”
“Non vorresti cosa?”
“Non vorrei che poi Olaf si sentisse solo.”

Al piano inferiore del portavivande dove vegeta (è stata dimenticata?) Ursula, in un sacchetto di carta vegeta (è stato dimenticato?) Olaf, una pezzo di zenzero ormai abbondantemente germogliato.
Obongo ripone i due vecchi amici ai rispettivi piani, chiedendosi se anche muschi, muffe e licheni, alla loro comparsa nella sua casa saranno destinati a un battesimo oppure a un funerale.


domenica 24 maggio 2015

L'artigiano

In un mondo globalizzato nel nome della produttività e dell’efficienza, c’è un uomo che non si arrende e ancora mette la sua arte manifatturiera davanti a tutti e tutto.
Questa è la storia di Obongo, l’artigiano.

Quei vecchi mobili realizzati dal falegname del paese, con il legno di alberi pregiati, frutto di ore passate sulle rifiniture e dell’amore per la cura del dettaglio, con il risultato finale di un pezzo unico e inimitabile o forse quei volumi scritti da amanuensi benedettini, con la loro calligrafia perfezionata in mesi e mesi di pratica a lume di candela, che intrappolava le parole sulla pagina in uno stile sinuoso: queste ed altre storie di artigianato sopraffino sono la fonte d’ispirazione quotidiana nella vita di Obongo.

Obongo in realtà gestisce un piccolo negozio di panini da asporto, ma ciò non lo scoraggia dal considerare la sua un’arte ed in quanto tale praticarla.
I suoi movimenti sono lenti e calcolati; arte e fretta del resto, non possono convivere nello stesso laboratorio.
Obongo solleva delicatamente un panino dal bustone dove giace ammassato con gli altri panini; non vuole rischiare di danneggiarlo per l’incuria, deve giungere al cliente privo di scalfitture sulla crosta.
E con cura lo accompagna verso l’area di taglio, ripulita dalle briciole prodotte dal suo predecessore, raccolte una ad una con pollice e indice a mo’ di pinzetta.
Una volta sistematolo sul tagliere, Obongo esegue l’operazione con una perizia che solo pochi chirurghi riservano alle pance dei loro pazienti; le due metà devono essere speculari per garantire al palato un’equa distribuzione della mollica sopra e sotto.
Valutata positivamente la geometria della sezione, Obongo si porta verso il cliente e sistematosi di fronte a lui in modo cerimonioso, chiede: “Cosa gradisce il signore?”
Il signore soffia forte verso l’alto per spostare la ragnatela che gli si è formata sulla fronte e procede ad ordinare: “salsiccia, pomodoro, insalata e maionese”.
Obongo annuisce mentre verifica attentamente che tutti gli ingredienti siano disponibili.
Quei dieci minuti in realtà gli servono per finalizzare il progetto.
Sì; perché a fare un panino sono capaci tutti, ma per progettarne uno ci vuole talento.
Obongo comincia sollevando il barattolo della maionese ed osservandolo in controluce con un monocolo da taschino; sta calcolando quanta pressione sarà necessaria per spremere la quantità giusta e poi spalmarla con un movimento antiorario del polso, garantendo il massimo coefficiente di assorbimento per centimetro quadrato di pane a parità di salsa applicata.
L’operazione richiede solo quindici minuti.
È poi la volta della foglia di insalata; Madre Natura, artista per eccellenza, di suo non ne produce due uguali. Obongo è quindi costretto a scrutinarle da vicino con grande attenzione, per capire quale tra le foglie disponibili nel contenitore sia davvero perfetta per aderire alla sagoma del pane che ha in mano.
Un’analisi dei microsolchi prodotti dal taglio comparata alle venature della foglia verde gli fornisce i dati essenziali per applicare il suo personalissimo algoritmo di scelta.
Nei casi più complessi il problema non può essere risolto con una singola foglia e deve fare ricorso alla costruzione di un mosaico utilizzandone diverse; una frontiera di Pareto risolve il problema di ottimizzazione multi-obiettivo.
Giusto una mezz’oretta ed è tempo di posizionare il pomodoro.
Qui Obongo ha vita abbastanza facile perché le rotelle di pomodoro sono tonde come la sezione del panino; azzeccare il diametro è semplice, ma il colore?
Volete un panino sciatto, fatto in maniera superficiale, senza tenere conto degli accostamenti cromatici?
Per un artigiano vero questo equivale a un insulto.
Il verde della lattuga non sta bene con tutte le tonalità di rosso dei pomodori a disposizione: la scelta cade su un carminio tenue con sfumature amaranto.
Via verso il gran finale adesso, anche perché l’orario di chiusura si avvicina.
Come in ogni delicato processo che si rispetti, arriva il momento critico: la salsiccia.
La cottura viene completata attraverso laboriosi passaggi che includono, fra gli altri: foratura in punti strategici calcolati con riga e compasso, spostamenti ad intervalli regolari sulla piastra per uniformare il calore e canto di un requiem in memoria dell’animale trapassato.
L’arte di Obongo però trova la sua vera esaltazione nella fase finale: adagiare quei pezzetti tubolari sulla piattaforma rotonda, dando alla sua opera un’armonia perfetta che non disturbi l’ordine già stabilito tra i pezzi collocati in precedenza.
Il panino di Obongo, il capolavoro di artigianato, è pronto.

Si tratta solo di rianimare il cliente dal sonno profondo per farsi pagare ed Obongo potrà andare a riposare in vista dell’indomani.
Al risveglio lo aspetta un “cotto, fontina, cetriolini, ketch-up e funghi” che richiederà uno sforzo notevole, visto che lo dovrà consegnare la settimana seguente.