domenica 24 maggio 2015

L'artigiano

In un mondo globalizzato nel nome della produttività e dell’efficienza, c’è un uomo che non si arrende e ancora mette la sua arte manifatturiera davanti a tutti e tutto.
Questa è la storia di Obongo, l’artigiano.

Quei vecchi mobili realizzati dal falegname del paese, con il legno di alberi pregiati, frutto di ore passate sulle rifiniture e dell’amore per la cura del dettaglio, con il risultato finale di un pezzo unico e inimitabile o forse quei volumi scritti da amanuensi benedettini, con la loro calligrafia perfezionata in mesi e mesi di pratica a lume di candela, che intrappolava le parole sulla pagina in uno stile sinuoso: queste ed altre storie di artigianato sopraffino sono la fonte d’ispirazione quotidiana nella vita di Obongo.

Obongo in realtà gestisce un piccolo negozio di panini da asporto, ma ciò non lo scoraggia dal considerare la sua un’arte ed in quanto tale praticarla.
I suoi movimenti sono lenti e calcolati; arte e fretta del resto, non possono convivere nello stesso laboratorio.
Obongo solleva delicatamente un panino dal bustone dove giace ammassato con gli altri panini; non vuole rischiare di danneggiarlo per l’incuria, deve giungere al cliente privo di scalfitture sulla crosta.
E con cura lo accompagna verso l’area di taglio, ripulita dalle briciole prodotte dal suo predecessore, raccolte una ad una con pollice e indice a mo’ di pinzetta.
Una volta sistematolo sul tagliere, Obongo esegue l’operazione con una perizia che solo pochi chirurghi riservano alle pance dei loro pazienti; le due metà devono essere speculari per garantire al palato un’equa distribuzione della mollica sopra e sotto.
Valutata positivamente la geometria della sezione, Obongo si porta verso il cliente e sistematosi di fronte a lui in modo cerimonioso, chiede: “Cosa gradisce il signore?”
Il signore soffia forte verso l’alto per spostare la ragnatela che gli si è formata sulla fronte e procede ad ordinare: “salsiccia, pomodoro, insalata e maionese”.
Obongo annuisce mentre verifica attentamente che tutti gli ingredienti siano disponibili.
Quei dieci minuti in realtà gli servono per finalizzare il progetto.
Sì; perché a fare un panino sono capaci tutti, ma per progettarne uno ci vuole talento.
Obongo comincia sollevando il barattolo della maionese ed osservandolo in controluce con un monocolo da taschino; sta calcolando quanta pressione sarà necessaria per spremere la quantità giusta e poi spalmarla con un movimento antiorario del polso, garantendo il massimo coefficiente di assorbimento per centimetro quadrato di pane a parità di salsa applicata.
L’operazione richiede solo quindici minuti.
È poi la volta della foglia di insalata; Madre Natura, artista per eccellenza, di suo non ne produce due uguali. Obongo è quindi costretto a scrutinarle da vicino con grande attenzione, per capire quale tra le foglie disponibili nel contenitore sia davvero perfetta per aderire alla sagoma del pane che ha in mano.
Un’analisi dei microsolchi prodotti dal taglio comparata alle venature della foglia verde gli fornisce i dati essenziali per applicare il suo personalissimo algoritmo di scelta.
Nei casi più complessi il problema non può essere risolto con una singola foglia e deve fare ricorso alla costruzione di un mosaico utilizzandone diverse; una frontiera di Pareto risolve il problema di ottimizzazione multi-obiettivo.
Giusto una mezz’oretta ed è tempo di posizionare il pomodoro.
Qui Obongo ha vita abbastanza facile perché le rotelle di pomodoro sono tonde come la sezione del panino; azzeccare il diametro è semplice, ma il colore?
Volete un panino sciatto, fatto in maniera superficiale, senza tenere conto degli accostamenti cromatici?
Per un artigiano vero questo equivale a un insulto.
Il verde della lattuga non sta bene con tutte le tonalità di rosso dei pomodori a disposizione: la scelta cade su un carminio tenue con sfumature amaranto.
Via verso il gran finale adesso, anche perché l’orario di chiusura si avvicina.
Come in ogni delicato processo che si rispetti, arriva il momento critico: la salsiccia.
La cottura viene completata attraverso laboriosi passaggi che includono, fra gli altri: foratura in punti strategici calcolati con riga e compasso, spostamenti ad intervalli regolari sulla piastra per uniformare il calore e canto di un requiem in memoria dell’animale trapassato.
L’arte di Obongo però trova la sua vera esaltazione nella fase finale: adagiare quei pezzetti tubolari sulla piattaforma rotonda, dando alla sua opera un’armonia perfetta che non disturbi l’ordine già stabilito tra i pezzi collocati in precedenza.
Il panino di Obongo, il capolavoro di artigianato, è pronto.

Si tratta solo di rianimare il cliente dal sonno profondo per farsi pagare ed Obongo potrà andare a riposare in vista dell’indomani.
Al risveglio lo aspetta un “cotto, fontina, cetriolini, ketch-up e funghi” che richiederà uno sforzo notevole, visto che lo dovrà consegnare la settimana seguente.


domenica 17 maggio 2015

Il folletto Frittata (Edizione 2015)

Riecco il folletto Frittata, uno dei primissimi pezzi di Obongo.
Visto che alcune parti non mi convincevano più tanto, l'ho ritoccato qua e là.
Per i curiosi, la versione originale potete leggerla qui.

C’era una volta un bo... un bo... un bo... un bosco incantato dove viveva un folletto che si chiamava Frittata.
“Chissà perché mi chiamo così?” pensava.
Frittata era un tipo un po’ matto e pesava 100 grammi.
Abitava sotto un fungo cresciuto sotto l’unghia incarnita dell’alluce sinistro di un orco, dal nome che era tutto un programma: Granp.
Il buon Frittata (“Che nome strano che ho, non mi piace”, disse all'autore) soffriva molto per il fetore emanato dal Granp orco e, per non finire intossicato, cercò di mettersi dei tappi nel naso ma sbagliò mira e se li infilò nelle orecchie.
“Hurrà! Non sento più la puzza! Non sento più niente!” esultò festante rivolto verso un suo amico che gli rispose: “--------? ------------! -----, -------!”
A quel punto sprofondò nella disperazione più nera in quanto oltre a non udire non vedeva più nulla, mentre poteva ancora sentire tutto il fetido olezzo.
Comperò allora una maschera modernàs da mettersi sul volto; ma dopo poco capì che quello che gli serviva era invece una maschera antigas.
Perennemente isolato per via del terribile puzzo e costretto ad indossare sempre la maschera, Frittata continuò a vivere sotto il suo fungo, ma capì che il problema non era risotto.
Anelava per se una vita migliore trovando che fosse normale per un folletto avere una forte aspirazione.
Frittata (“Dovevi essere ubriaco quando mi hai dato il nome”, protestò ancora nei confronti dell’autore) si rivolse allora al saggio Sondipas, in cerca di una soluzione.
“Ho riflettuto a lungo figliolo, sembravo uno specchio da quanto ho riflettuto ma ho trovato la soluzione al tuo problema” disse Sondipas transitando rapido, “Ti ho scritto tutto qui sul folletto delle istruzioni”.
“Vorrai dire ‘foglietto’, saggio Sondipas?”, lo corresse Frittata.
Già sulla porta pronto ad andarsene, Sondipas saggio esitò un istante per introdurre il suo assistente “No, intendo proprio lui, Delleistruzioni, è il folletto che mi fa da assistente”
Delleistruzioni sbottò “Non sono un folletto, sono un toro!”
Sondipas si rivolse nuovamente a Frittata “Non farci caso, è un tipo bugiardino. Avvicinati e guarda.”
Frittata si avvicinò a Delleistruzioni e poté leggere l’appunto che il saggio Sondipas gli aveva scritto sulla fronte col pennarello: “È il momento di fare un traslorco.”
Frittata (“Dai, cambiami il nome!” suggerì indispettito all'autore) si decise quindi a migrare sotto un nuovo fungo cresciuto su un’altra unghia di proprietà di un altro orco, possibilmente più attento all'igiene personale.
Scelse il nuovo orco per il modo in cui costui cantava le note alte oltre che per la dimensione della pancia, con l’obiettivo dichiarato di migliorare il tenore di vita.
L’orco, che si chiamava Baleno, era molto variopinto ed ospitava un’intera comunità, una folla di folletti, i quali, dopo qualche tempo, avendolo preso in simpatia, lo elessero indaco.
Purtroppo in questa carica Frittata non ne combinò una giusta e dopo poco tempo i suoi conorchini esasperati, stavolta lo fecero indaco.
Sull'orco Baleno trovò però la sua anima gemella.
Si sposò con un’affascinante elfa che faceva la centralinista, nota a tutti come la folletta del telefono.
Ella aveva un buffo nome: Tento, ed il nostro eroe visse felice e con Tento fino alla fine dei suoi giorni.
Ovvero fino all'indomani, in quanto essendosi scordato i tappi nelle orecchie non sentì il clacson di un giaguar che lo centrò in pieno spiaccicandolo sull'asfalto come una frittata.

“...Bastardo...” furono le ultime parole del folletto e nessuno seppe mai se dirette al giaguar o all'autore.


domenica 10 maggio 2015

Tre domande per un’accurata analisi del linguaggio

Un giorno come tanti, Obongo esce di casa con in braccio sua figlia.
Ancora indeciso se andare a destra o a sinistra per una passeggiata in città, viene avvicinato da due ragazzetti adolescenti, evidentemente in cerca di un’informazione.
Uno dei due si ferma e gli chiede: “Scusi, ma... Cinesi? In questa zona?”
Obongo impiega qualche secondo di troppo per rispondere, tutto preso dalla ricerca del predicato verbale nella domanda del ragazzo, quando quello, vedendolo un po’ perplesso, aggiunge qualche altro dettaglio per aiutarlo nella comprensione del messaggio: “Cioè: negozio”.
Per supportare meglio quest’ulteriore informazione, infila fra il 'cioè' e il 'negozio' un gesto con la mano destra, rivolgendo il dorso del polso verso l’alto e roteando le dita tese verso il basso, come per mescolare rapidamente qualcosa.
Nella testa di Obongo gli interrogativi anziché diminuire aumentano ed il ragazzetto un po’ deluso del mutismo inespressivo del poco informato adulto, se ne va via, congedandolo: “Va beh, grazie lo stesso”.

L’episodio lascia Obongo di sale ma offre qualche spunto per un’attenta analisi al rallentatore.
In particolare, tre domande hanno disperatamente bisogno di una risposta.

Partiamo da quella più ovvia: “Cosa stavano cercando i due baldi ragazzini alle dieci del mattino in una strada di un quartiere che potremmo dedurre non conoscessero affatto?”
La prima parte della risposta è ovvia.
Se per qualche istante poteva sembrare che si accontentassero di una manciata di cittadini di origine cinese scelti a casaccio fra quelli presenti nei paraggi, l’informazione aggiuntiva ha ristretto il cerchio ai soli reperibili all'interno di un’attività commerciale.
Un negozio di cosa, però?
Magari la sintassi approssimativa (o slang moderno?) era volutamente depauperata del verbo ed i due hanno cercato di lanciare un messaggio criptato, tipo “il cigno è volato” o “le mele sono nel forno”?
No, in effetti anche i messaggi mafiosi in codice sono provvisti di uno straccio di verbo.
Forse cercavano un bordello? O della droga? O magari dei giapponesi, però contraffatti che sembrassero cinesi? O forse un insegnante di grammatica? Cinese?
Ai posteri l’ardua sentenza: certo che se le finalità erano para-criminali, potevano valutare meglio la scelta di un papà col doppio (triplo?) dei loro anni intento a portare a passeggio la sua bimba come possibile fonte di informazioni.
Per continuare la nostra analisi, mettiamo da parte per un attimo il rebus del negozio e focalizziamoci invece sulla seconda domanda: “che significato ha il gesto del frullino”?
Sì, perchè quello strambo movimento nella testa del ragazzino doveva servire ad illuminare Obongo sul senso della sua richiesta: nella fattispecie rafforzare il sostantivo ‘negozio’ o, in alternativa, la congiunzione ‘cioè’.
Con somma indulgenza, supponiamo che il giovane non soffra di una rara malattia per cui i gangli dell’ipotalamo sono connessi agli arti completamente a cazzo e che gli impulsi emessi dal cervello arrivino a destinazione assecondando la direzione voluta: per capirci, quando vuole fare "ok" congiunge pollice e indice come tutti e non fa invece le corna oppure gli si gira la testa al contrario come un indemoniato.
Alla luce di questa premessa: cosa diavolo frulla quella manina per veicolare il concetto di ‘negozio’?
Obongo, schiavo della sua forma mentis così dannatamente analitica, ha elaborato le seguenti risposte che ritiene però tutte equamente improbabili:
- un negozio di frullini cinesi (rigorosamente in zona);
- un negozio di medicina cinese, che venda qualcosa contro gli spasmi motori della mano (in zona);
- vecchio babbione, ti ho già spiegato tutto nella prima frase, ora mi tocca fornirti dettagli aggiuntivi a gesti, ma non esistendone uno per ‘negozio cinese qualsiasi’, improvviso così.

La terza domanda però è quella che più di tutte logora la mente di Obongo e alla quale probabilmente nessuno potrà mai dare una risposta certa.
Viste le capacità di comunicazione alquanto approssimative del ragazzo che si è avvicinato per chiedere l’informazione, che razza di analfabeta doveva essere quell'altro che è rimasto in disparte?
Insomma: se fra due tizi che hanno bisogno di compiere una qualsiasi azione, uno se ne fa carico, si suppone che dei due sia quello che ha più speranze di riuscirvi.
Il migliore o il meno peggio.
Il migliore del caso in questione si spreme le meningi per assemblare una frase di ben sei parole mancando però di corredarla con un verbo, mettendoci poi una pezza con l’aggiunta di altre due (sempre niente verbo) e condendo il tutto con il misterioso gesto del frullino.

E se le tre domande senza risposta rischierebbero di fargli perdere il sonno, Obongo sa che gli basterà immaginarsi l’altro ragazzetto da solo, senza il suo amico letterato, costretto a chiedere la medesima informazione a qualcuno, per addormentarsi in pace.

“Scusi… Casa… Cina… Qui?”


domenica 3 maggio 2015

Ogni ameba ha la sua scarpa

Un altro personaggio si aggiunge al variegato mondo di Obongo Forever.

L’ameba Stapoco è un esserino amorfo che conduce un’esistenza semplice.
Nonostante sia di abitudini parche e facilmente accontentabile, l’ameba Stapoco ha avuto moltissime delusioni nella sua vita.
La sua più grande passione era suonare il pianoforte, ma il fatto di non avere le mani si è rivelato un problema insormontabile.
Quando ha cambiato hobby per dedicarsi alla maratona, le cose non sono andate molto meglio.
E così con l’hula-hoop, la salsa, il canto a cappella e altre svariate attività che prevedevano l’avere delle parti del corpo per poterle praticare.
L’ultimo tentativo è stato quello di iscriversi in palestra, ma da subito si è resa conto che il suo desiderio di essere in forma non aveva alcuna possibilità di realizzarsi.
Un po’ scoraggiata si era accorta una volta per tutte di non avere a sua disposizione alcun arto o tanto meno organo: non un rene, un fegato o un pancreas su cui contare e, a giudicare dall’impressionante numero di tentativi falliti negli anni, certamente non un cervello.
Se avesse avuto una bocca, per esempio, sarebbe stata ghiottissima di carote.
Magari con un gruppo di altre amebe avrebbe dato vita un organismo a supporto di questa prelibata radice, che sarebbe diventato noto come la “Cellula pro-carota”.
Ma niente bocca, niente carote, niente di niente.
Per sopperire a quest’ultima mancanza andò a vivere in un lago per nutrirsi dei cervelli degli incauti bagnanti che lo frequentavano.
Il tran tran quotidiano procedeva quindi nel galleggiare a mezz’acqua aspettando che l’orecchio di qualche preda fosse a tiro, per intrufolarvisi e andare a succhiargli l’encefalo.
Casa, orecchio, cervello, orecchio, casa.
Stapoco soffriva, non era più nel fiore degli anni e si sentiva sola e brutta.
Qualcosa mancava nella sua vita: un compagno che l’apprezzasse.
Fortunatamente un bel giorno, mentre nuotava dalle trombe di Eustachio verso l’ipotalamo di un analfabeta che non aveva letto il divieto di balneazione, incontrò un’altra ameba che viveva nello stesso lago.

“Ciao, anche tu da queste parti?
“Ciao, sì, abito qui vicino.”
“Sei carina, non ti avevo mai visto prima.”
Stapoco avrebbe voluto arrossire in quel momento, ma non aveva le guance.
Si accontentò quindi di rispondere:
“Che sfrontato, scommetto che lo dici a tutte per fare colpo.”
“Scherzi? Per tua informazione sono uno di gusti moooolto difficili; non faccio mica complimenti alla prima ameba che passa, io seleziono accuratamente! Solo che tu, se mi permetti, tu hai davvero dei bei gameti”
“Ih ih ih ih… Grazie.”
“Ti andrebbe di andare a fagocitosi insieme una di queste sere?”
“Ih ih ih ih… Sì, molto volentieri.”
“Conosco un posto dove si mangia su dei funghi eccezionali.”
“Ok, va bene.”
“Allora a presto, sexy!”
“Ih ih ih ih”
“Ah, non mi hai detto come ti chiami?”
“Io mi chiamo Stapoco, e tu, come ti chiami?”
“Io sono l’ameba Stacherespiri”.