lunedì 3 settembre 2018

Till death tattoo us part

Questo l’ho fatto quando avevo 16 anni.
Bello. Molto carino.
Poi ne ho un altro sulla caviglia, una rosa rossa che rappresenta l’amore e la passione.

La parrucchiera sforbicia precisa e sicura mentre racconta la mappa geografica dei tatuaggi attualmente presenti sulla sua pelle.
Obongo, del partito di quelli che si farebbero tagliare i capelli in un beato silenzio, non ha potuto fare a meno di notare gli sgargianti disegnini rivelati dal look senza maniche.
E ora non gli resta di meglio che ascoltare i dettagli.
Quanti sono, cosa rappresentano, quanti altri ne vuole fare.

Questo mi ha fatto un po’ male, è una zona piena di terminazioni nervose.
E quello là? Quella palla colorata con un riflesso?
No, no, no. Non è una palla.
Ops… Cosa rappresenta allora?
È l’iniziale del nome di mio marito, una lettera O.

“Ora mi devo sorbire pure la telenovela in salsa tattoo” pensa Obongo mordendosi la lingua.

Quando ci siamo sposati lui si è tatuato l’iniziale del mio nome esattamente nello stesso punto. Così quando abbiamo fatto le promesse di matrimonio mano nella mano, le iniziali restavano vicine vicine.

[immaginari violini di marzapane suonano la marcia nuziale in sottofondo, mentre passerotti fatti di piume e amore cinguettano intonati]

Eh... Perchè quando c’è un amore grande come il nostro, senti che te lo devi scrivere sulla pelle… Che devi lasciare una testimonianza forte… Una traccia visibile... Capisci?

Obongo no, non capisce; ha seri problemi a capire tutti i tatuaggi che vorrebbero essere una O e che sembrano invece una palla con un riflesso.
Ha problemi ancora più seri a capire chi si tappezza di macchie colorate indecifrabili, che più che il prodotto di un ago che ricalca un disegno, sembrano il risultato dello starnuto di un tatuatore con la bocca piena di tutti gli inchiostri disponibili.

- Quanti ne vuoi?
- 19 e tutti rigorosamente a cazzo.
- Preferenze?
- No, vai, fai tu. Eccoti il pepe.
- Aspetta! Lasciami rimasticare bene questi dieci litri di arcobaleno, così si impasta tutto alla perfezione. EQQO HONO HONTHO.
- Ecco il pepe. Vai, tatuami!
- ETTCHUUMMMM!!!! SPLATCH – SPLOTCH - SPLUTCH
- Oh, oui, j’adore! Guarda che tribalino del Congo che mi hai piazzato sullo sterno!

Terminato il suo sogno a occhi aperti, Obongo torna alla realtà e risponde invece:

Sì, capisco.
Guarda, ci amiamo davvero tanto. Quando ho conosciuto mio marito ho capito subito che lui era quello giusto… E lui con me. Quindi abbiamo deciso di farci questi tatuaggi.
Molto romantico.
Sì, sì… L’amore… Quello vero, quello che resta per sempre...
Anzi, scusa se ho pensato che fosse una palla con un riflesso.

[I violini zuccherosi si fermano di colpo e i passerotti atterrano male sul pavimento]

La parrucchiera assume un’aria seria e osserva Obongo.
Obongo un po’imbarazzato spera che la romanticissima ragazza non si sia offesa.

No tranquillo. È che sai, i tatuaggi poi restano anche se le storie finiscono.
...
Per cui se quello stronzo un giorno lo becco a letto con un’altra, quella O diventa subito un sole giallo. Io intanto mi sono portata avanti, non si sa mai: con quei riflessi ci posso fare un lago, poi ci faccio mettere due colline sotto e qualche nuvola. Così gli ricorderò per sempre il tramonto dei suoi soldi con tutti gli alimenti che gli faccio pagare.
...
Ma per adesso, il tatuaggio è una O.



martedì 17 luglio 2018

La gaìna in canavera

È un bellissimo matrimonio ed il pranzo scorre via leggero fra una portata e l’altra.
Gli sposi sono belli e felici e, prima della torta come da consuetudine, c’è spazio per i discorsi.
Prima la sposa Obonghella, poi suo marito Obònguel.
“Grazie”, “Felici”, “Amici”, “Brindisi”.
Applausi.
Poi, colto da improvviso entusiasmo, anche il proprietario del ristorante sente di dover intervenire.
“Grazie”, “Felici”, “Amici”, “Brindisi” … “Evviva gli sposi!”
Applausi.
Sull’onda dell’entusiasmo di cui sopra però, invece di posare il microfono o magari lanciare un hip-hip-hurrà, prosegue in tutt’altro modo.

“Vi rubo solo qualche secondo perché ci tengo tantissimo a raccontarvi uno dei piatti che vi abbiamo servito oggi”.
Neghereste mai pochi secondi a tale e tanto amore per la cucina locale?
“Volevo spiegarvi la ricetta della gaìna in canavera”.
Obongo, che non è veneto doc, era riuscito a capire la traduzione gaìna=gallina ma effettivamente cosa fosse la preparazione ‘in canavera’ restava per lui un po’ un mistero.
Ascolta quindi con interesse.
“Un piatto della tradizione, che si preparava già centinaia di anni fa, eredità della cultura povera di questi luoghi quando non avevamo niente e si cucinava con quello che c’era”
“Si prendeva la gaìna, la si sbudellava, la si scotennava, la si ripuliva per bene e poi la si imbottiva con rosmarino, timo, olive, aglio, cipolla, peperoni, cetrioli, pomodori, mele, pere, pesche, banane, frutti di bosco, uvetta, pinoli, anacardi, cereali, patate, fave e strudel.” [ok, lo strudel no, ma alla faccia della cucina povera, nella ricetta originale mancavano solo oro, incenso e mirra]
“Poi si prendeva questa bella gaìna farcita e la si metteva dentro la vescica di un maiale sventrato per l’occasione, la si attaccava a una canna e la si lasciava a macerare per qualche mese per far amalgamare bene tutti i sapori”.

E se ora di questo reportage sugli alti picchi della cucina tradizionale veneta leggete una sintesi, tenete a mente che l’oste dal vivo è andato avanti per un buon quarto d’ora, soffermandosi con cura sui cruenti dettagli di preparazione, fra sbudellamenti, frattaglie suine e lentissime macerazioni.
Il tipico, lunghissimo discorso che fai per farti voler bene al matrimonio di perfetti sconosciuti.
Soprattutto imperniandolo sulla vescica di un maiale.

Obònguel e Obonghella si guardano impietriti ma nessuno interviene.
Qualcuno dei commensali inizia a farsi domande sul perché la maceratissima gaìna avesse un sapore quantomeno inusuale
Oste a ruota libera.

“Ahimè al giorno d’oggi ci sono talmente tante regolamentazioni su come dobbiamo preparare il cibo per cui non possiamo più fare la buona gaìna di una volta” [alza gli occhi al cielo maledicendo quella stupida istituzione dell’Ufficio dell’Igiene e rimpiangendo le care vecchie epidemie di botulino]
“Siamo costretti a usare le buste di plastica al posto della vescica e la facciamo macerare in frigo anziché sulle canne” [sospira, rivangando con la memoria le sanguinolente vesciche che sventolavano annodate alle canne – i commensali sospirano pensando che le percentuali di sopravvivenza al pranzo si sono stabilizzate].
“Spero comunque che vi sia piaciuta”

Pausa.
Timido applauso, figlio di tenue speranza che abbia concluso.
Obònguel fa un gesto in avanti per rimuovere il microfono dalle mani del cuoco medievalista, ma prima che riesca a coordinare un “grazie”, quello riattacca:

“Il dolce che state per mangiare invece si chiama Starnuto della Scrofa; ora vi racconto come lo abbiamo preparato”.