martedì 6 marzo 2007

Di megere e pizzerie

Stralci di storie di vita vissuta tra posti e personaggi degni di nota.
Sono certo che alla fine converrete con me che tutti abbiamo nel cuore una Megera o un Maiale.

Gianni il sorridente.
Gianni e' il cameriere di una pizzeria.
Lo potete riconoscere per questo semplice particolare: dal momento in cui mettete piede nel locale dove lavora, lui vi odia.
Gianni il sorridente e' democratico: a prescindere da chi voi siate o da cosa rappresentiate, lui comunque vi detesta con tutte le sue forze, solo perche' siete li'.
Il solido principio che regola la sua vita e' il seguente: "Che cazzo ci fate voi nella pizzeria dove lui, per il fatto che ci siete andati, sara' costretto ora a lavorare per servirvi la pizza e la birra?"
"Non potevate andare a mangiare affanculo?" sembra bofonchiare ogni volta che un cliente gli chiede un tavolo. Non pago di cio', fa di tutto per esternarvelo pur se con un certo savoir faire. Grazie ad un selfcontrol degno di Carlo di Inghilterra, vi trattera' con professionalita' mentre probabilmente desidera buttarvi vivi dentro il forno a legna, vi chiedera' con garbo che pizza volete, mentre segretamente si concentra nel tentativo di provocarvi danni fisici con le sue malefiche onde cerebrali cariche di astio.
Probabilmente vittima di una paresi parziale della mascella sin dalla tenera eta', leggende metropolitane raccontano che Gianni abbia sorriso una sola volta nella vita: si era distratto.

Dal Maiale.
Il Maiale e' un uomo grande e grosso con i baffi che ha una pizzeria.
Sull'igene del Maiale, in realta', nessuno ha nulla da dire: primo perche' davvero sembra una persona pulita, secondo perche' e' enorme e ha la faccia da cattivo.
Il Maiale deve tale nome al suo locale: una sorta di porcilaia costruita ed arredata (arredata?) con cattivo gusto e mezzi di fortuna.
Fino a qualche tempo fa l'ingresso della pizzeria del Maiale era sovrastato da cartello al neon con una scritta nera su sfondo giallo (in perfetto stile "Bocca di rosa") che recitava "pizzeria". Minimalista.
Sotto il cartello, una porta a vetri. Nel senso di "molti vetri"; tutti diversi tra loro e sistemati a comporre una sorta di puzzle al silicio, frutto forse dell'assemblaggio di un finestrino di Skoda con bottiglie di birra riciclate.
Una volta dentro il locale mostrava il peggio di se': difficile trovare piu' di tre bicchieri uguali, le tovaglie rigorosamente di carta, le forchette e i coltelli non sempre pulitissimi.
La tappezzeria era composta da carta da parati con un disegno che ricordava il legno di una baita di montagna: il legno era finto, ma i chiodi arrugginiti che spuntavano qua e la' dalle pareti erano veri. Ovunque enormi foto di squadre di pallavolo di serie non pervenuta, nelle quali campeggiava il baffuto Maiale in qualita' di sponsor, contento e sorridente, forse perche' leggendo sulle maglie della squadra era riuscito a sapere come si chiamasse il suo locale.
La televisione sempre a volume altissimo e sintonizzata sul programma piu' squallido della serata (sono riuscito a rivedere, tra gli altri, "La pretora" e "Io zombo, tu zombi egli zomba") era sistemata sopra una di quelle credenze tanto in voga in epoca fascista e circondata da enormi zucche da esposizione, probabilmente gia' vincitrici di premi in fiere agricole di qualche anno fa.
Un giorno io ed i miei amici, fedeli estimatori della pizza del Maiale, ci recammo li', trovandoci di fronte ad una porta a vetri con i vetri tutti uguali.
Entrammo dentro un po' spaesati e notammo che i tavolini erano stati apparecchiati con una bella tovaglia rosa, i bicchieri erano (quasi) tutti uguali, le posate (quasi) tutte pulite, il mobile fascista non c'era piu' e neanche i chiodi arrugginiti; per non parlare della tappezzeria che era stata eliminata del tutto in favore di una ritinteggiatura integrale.
Le zucche campionesse erano state rimosse e con loro le foto dei pallavolisti di serie C2.
La pizza era sempre buona, ma non ci siamo piu' tornati.
Il Maiale si era demaializzato, non era piu' la stessa cosa.

Locale a norma di Megera.
Io ed i miei amici scoprimmo un pub meraviglioso. Una vera e propria bettola che facemmo diventare la nostra seconda casa, nella quale la birra costava come l'acqua e l'orrendo spettacolino di karaoke, dopo poche settimane, era diventato un nostro monopolio.
La vera perla di questo posto era la gestione familiare.
Padre, madre ed una squadra di figli e figlie che si alternavano a lavorarci dentro.
E la mamma, signori miei, era una vera e propria mamma!
Intendo: una "mater" mediterranea da campionato. Un tripudio di donnone, a occhio e croce sui centomila chili netti, che soleva installarsi per tutta la serata su tre sedie e da sotto le folte ciocche di capelli grigi, controllava il locale con il suo sguardo corrucciato. Una sorta di buttafuori kitch dipinto da Botero, con la faccia incazzata ed i modi di un mostro Haniba.
Quel simpatico bettolone, con tutta la sua Megera dentro, chiuse un giorno di punto in bianco e noi esuli pellegrini cominciammo a girarne degli altri, come figli spaesati che non sanno che fine ha fatto la loro mamma.
Dov'era la nostra Megera? Ne avremmo mai trovata un'altra di tale livello?
Io ed il mio amico Obongo, compagno di sbronze e cantate al karaoke, dopo avere girato un sacco di posti, finimmo un giorno nell'ennesimo pub.
Ci piaceva: era truzzo, la birra costava come l'acqua ed il karaoke poteva diventare un nostro monopolio. Obongo, un po' triste, mi fece pero' notare che non c'era la Megera.
Io annuii, un po' sconsolato: "Dai, non e' male comunque... e' veramente una bettola!".
Scosse la testa: "Non c'e'. Inutile prenderci in giro, se non c'e' non c'e'."
All'improvviso, da dietro una tendina, ecco materializzarsi un monumentale esemplare di donna-ippopotamo. Si installo' trionfante su un numero imprecisato di sedie, incazzatissima e inizio' a controllare la situazione.
Goduria.
Il locale era a norma di Megera.

Afeto.
A forza di girare i locali dove si fa il karaoke, nei quali le disgrazie sonore come me possono dare libero sfogo ai propri istinti repressi, mi sono imbattuto in Afeto, un ragazzo sardo dotato di ottime qualita' canore.
Non altrettanto si poteva pero' affermare delle sue qualita' in fatto di pronuncia: e' infatti risaputo che i sardi hanno una lievissima tendenza naturale a raddoppiare le consonanti, e lui proprio non faceva eccezione.
Durante le sue esibizioni si potevano apprezzare delle versioni rinforzate di "Celleste nostalgia", "Questo piccollo grande ammore" o di "Vafffancullo".
Qualcuno glielo ha fatto notare e lui ci ha messo una pezza.
Il mio solito amico Obongo lo ha ritrovato a distanza di mesi in un altro posto mentre cantava "Cleptomania" dei Sugarcubes.
... aiutami a guarire da questa mia malattia...
Evvai! Bravo! Ma-lat-ti-a una elle sola. Bene!
...AFETO da una strana forma...

1 commento:

Anonimo ha detto...

bella panoramica sociale... :-/