martedì 17 luglio 2018

La gaìna in canavera

È un bellissimo matrimonio ed il pranzo scorre via leggero fra una portata e l’altra.
Gli sposi sono belli e felici e, prima della torta come da consuetudine, c’è spazio per i discorsi.
Prima la sposa Obonghella, poi suo marito Obònguel.
“Grazie”, “Felici”, “Amici”, “Brindisi”.
Applausi.
Poi, colto da improvviso entusiasmo, anche il proprietario del ristorante sente di dover intervenire.
“Grazie”, “Felici”, “Amici”, “Brindisi” … “Evviva gli sposi!”
Applausi.
Sull’onda dell’entusiasmo di cui sopra però, invece di posare il microfono o magari lanciare un hip-hip-hurrà, prosegue in tutt’altro modo.

“Vi rubo solo qualche secondo perché ci tengo tantissimo a raccontarvi uno dei piatti che vi abbiamo servito oggi”.
Neghereste mai pochi secondi a tale e tanto amore per la cucina locale?
“Volevo spiegarvi la ricetta della gaìna in canavera”.
Obongo, che non è veneto doc, era riuscito a capire la traduzione gaìna=gallina ma effettivamente cosa fosse la preparazione ‘in canavera’ restava per lui un po’ un mistero.
Ascolta quindi con interesse.
“Un piatto della tradizione, che si preparava già centinaia di anni fa, eredità della cultura povera di questi luoghi quando non avevamo niente e si cucinava con quello che c’era”
“Si prendeva la gaìna, la si sbudellava, la si scotennava, la si ripuliva per bene e poi la si imbottiva con rosmarino, timo, olive, aglio, cipolla, peperoni, cetrioli, pomodori, mele, pere, pesche, banane, frutti di bosco, uvetta, pinoli, anacardi, cereali, patate, fave e strudel.” [ok, lo strudel no, ma alla faccia della cucina povera, nella ricetta originale mancavano solo oro, incenso e mirra]
“Poi si prendeva questa bella gaìna farcita e la si metteva dentro la vescica di un maiale sventrato per l’occasione, la si attaccava a una canna e la si lasciava a macerare per qualche mese per far amalgamare bene tutti i sapori”.

E se ora di questo reportage sugli alti picchi della cucina tradizionale veneta leggete una sintesi, tenete a mente che l’oste dal vivo è andato avanti per un buon quarto d’ora, soffermandosi con cura sui cruenti dettagli di preparazione, fra sbudellamenti, frattaglie suine e lentissime macerazioni.
Il tipico, lunghissimo discorso che fai per farti voler bene al matrimonio di perfetti sconosciuti.
Soprattutto imperniandolo sulla vescica di un maiale.

Obònguel e Obonghella si guardano impietriti ma nessuno interviene.
Qualcuno dei commensali inizia a farsi domande sul perché la maceratissima gaìna avesse un sapore quantomeno inusuale
Oste a ruota libera.

“Ahimè al giorno d’oggi ci sono talmente tante regolamentazioni su come dobbiamo preparare il cibo per cui non possiamo più fare la buona gaìna di una volta” [alza gli occhi al cielo maledicendo quella stupida istituzione dell’Ufficio dell’Igiene e rimpiangendo le care vecchie epidemie di botulino]
“Siamo costretti a usare le buste di plastica al posto della vescica e la facciamo macerare in frigo anziché sulle canne” [sospira, rivangando con la memoria le sanguinolente vesciche che sventolavano annodate alle canne – i commensali sospirano pensando che le percentuali di sopravvivenza al pranzo si sono stabilizzate].
“Spero comunque che vi sia piaciuta”

Pausa.
Timido applauso, figlio di tenue speranza che abbia concluso.
Obònguel fa un gesto in avanti per rimuovere il microfono dalle mani del cuoco medievalista, ma prima che riesca a coordinare un “grazie”, quello riattacca:

“Il dolce che state per mangiare invece si chiama Starnuto della Scrofa; ora vi racconto come lo abbiamo preparato”.



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